Ipse dixit…e chi lo disse?
Tra le fatiche di Giandomenico Mazzoccato, anche IPSE DIXIT.
Così si legge dal suo suo sito internet : “Tutti ricordiamo Renzo Tramaglino che si reca, nelle prime pagine dei manzoniani Promessi sposi, da don Abbondio per definire gli ultimi particolari del suo imminente matrimonio. E il prete, atterrito dal divieto ricevuto dai bravi di don Rodrigo, gli oppone una muraglia di parole latine. E Renzo risponde con la più famosa frase antilatinista: “Che vuol ch’io faccia del suo latinorum?”.
Gian Domenico Mazzocato, traduttore della grande storiografia di Tito Livio e Tacito e studioso del grande poeta veneto-latino del VI secolo Venanzio Fortunato, ha scritto questo prezioso volumetto, Ipse dixit, proprio mettendosi dalla parte del latinorum. Perché la cosiddetta lingua morta è più viva che mai. E non solo perché l’italiano e tutte le lingue neolatine ne rappresentano la naturale evoluzione e dunque noi in realtà parliamo il latino del XXI secolo. Ma anche perché sono davvero infinite le parole e le espressioni latine che quotidianamente pronunciamo o leggiamo, senza nemmeno rendercene conto. Monitor, audio, video e media sono termini latini. Guidiamo auto, compriamo prodotti al supermercato, assumiamo farmaci che devono i loro nomi proprio all’idioma dell’antica Roma. Spesso scambiamo termini latini per anglosassoni oppure pensiamo che parole vecchie più di duemila anni siano dei neologismi. Per dissipare ogni nostro dubbio in materia ecco un libro che fa letteralmente a pezzi l’idea che la lingua di Cicerone, Tacito e Virgilio sia morta. Un volume fuori schema, ricco di informazioni, suggestioni, locuzioni e modi di dire ad uso quotidiano. Con un dizionario alternativo e divertente. La frase giusta da tirar fuori al momento giusto. Non solo per chi è già pratico di questa lingua, ma anche per chi il latino non l’ha mai studiato a scuola.
“L’idea, dice Mazzocato, mi è venuta parecchio tempo fa su un campo di calcio dove il presidente si concedeva alle interviste dopo una partita andata malissimo per i colori di casa e con una panchina che di conseguenza appariva decisamente in bilico. Il presidente, commentando l’operato del suo allenatore, tenne un discorso molto sostenuto infiorettandolo con frasi come fiat lux (faccia lui) oppure altrimenti sine qua non (siamo qua noi). Il presidente traduceva le espressioni latine in maniera, a voler essere gentili, approssimativa. Io, ben lungi dal sorridere da questo impiego grossolano della lingua di Cicerone, pensai che quella era una buona cosa. Il dirigente di una squadretta di periferia usava il latino per dare tono e nerbo alle sue parole. Molto bello, se ci si pensa. E le approssimazioni mi parvero dei dettagli marginali. Pensai allora che si poteva raccontare il latino in maniera rigorosa ma lontana da declinazioni, desinenze, regole e sottoregole. Poi, traducendo l’opera di Tito Livio, mi soffermai sul racconto della battaglia di Canne del 2 agosto 216 a.C. Per Roma una sconfitta terribile e probabilmente definitiva. Poteva essere la fine di tutto. Ad Annibale sarebbe bastato allungare le mani per prendere la città nemica. Non lo fece. Sui motivi del suo comportamento possiamo fare solo delle ipotesi, ma una cosa è sicura. Se lo avesse fatto semplicemente sarebbe cambiata la storia del mondo. Niente Colosseo e niente via dei Fori Imperiali. Virgilio non avrebbe cantato le gesta di Enea, l’eroe fondatore. Catullo non avrebbe scritto eterne parole d’amore. Si sarebbero sviluppate culture, valori, lingue diverse e per noi inimmaginabili. Sono partito proprio da questo racconto di fantastoria per dire che la lingua che ha costruito il mondo e attraversato i secoli dobbiamo tenercela cara. Perché la parliamo in ogni istante della nostra vita”.